La maestosità del falco

Il rollio del treno mi cullava come la ninna nanna

 che la nonna mi cantava da piccolina, mi pare

 parlasse di un uomo nero o di una strega cattiva

 che mi avrebbero tenuto per un anno con loro, ora

 a ripensarci, mi chiedo come potevo

 addormentarmi sulle note di una canzone così

 paurosa e inquieta. 


Mi ero stancata di canticchiare la ninna nanna sulle note dei binari che non andavano a tempo, iniziai

 allora a far saltare il mio sguardo come un acrobata da una casa all’altra, mentre il paesaggio di fronte a

 me cambiava repentinamente senza seguire le mie aspettative

Mentre osservavo le pianure diventare colline, poi montagne e poi di nuovo pianure e distrattamente posavo gli occhi sull’animale di passaggio, prima un cane randagio, poi una mucca, una pecora, un cavallo solitario, pensavo a quanta maestosità si trovasse nel volo di quel falco che mi accompagnava fin dalla stazione in ciò che forse avrei dovuto chiamare viaggio o forse fuga o forse, più semplicemente, non avrei dovuto chiamare ricordandomi del patto che avevo stretto tra me stessa e me medesima poche ore addietro.

Chiusi gli occhi e subito sprofondai in quel mare di stanchezza  che mi affliggeva ormai da ore amplificata dalla consapevolezza che solo nel riposo avrei trovato pace da quel turbinio di emozioni che mi attanagliavano e di cui evidentemente non avevo il controllo. Sentivo la pelle del viso tirare come se fosse carta velina, i capelli ricci e ribelli rovinarsi mentre ero accovacciata su quello scomodo sedile con le gambe rannicchiate quasi a formare una muraglia contro ogni possibile contatto con l’esterno della mia mente.  La mia testa pulsava al ritmo di Thunderstruck degli ACDC e in alcuni momenti mi sembrava Phil Rudd usasse le mie meningi come tom-toms . Così,  in queste condizioni paragonabili al peggiore dei post sbornia di Mick Jagger, ragionavo o meglio tentavo inutilmente di ragionare sulla mia prossima mossa.

Così offuscata dai troppi pensieri, senza accorgermene, inciampai in un sonno profondo, che invece di portare consiglio, mi lasciò cadere nell’oblio dei ricordi.

 

Non capivo se quello in sottofondo fosse il rimasuglio di un incubo o il suono della sveglia umana che era mia madre, mi coprii la testa con il cuscino cercando qualche altro attimo di sonno mentre il mondo intorno a me sembrava svegliarsi di soprassalto. Sentivo il profumo del caffè giungere alle mie narici ancora addormentate e i passi pesanti sul parquet che sembravano avvicinarsi sempre di più al mio piccolo antro di pace in quella casa di matti. Gemetti tra me e me per il reale risveglio che tra un po’ sarebbe irrimediabilmente giunto e con la mia mente, troppo assonnata per rendersi conto della stupidità di questo pensiero, tentai invano di spostare indietro le lancette dell’orologio guardandolo insistentemente, inutile dire che fu uno sforzo tanto proficuo quanto la battaglia di Abissina.

Eva Braun, 1,62 di crudeltà con un megafono al posto delle tonsille turbinò in camera mia urlando il mio nome. Mi guardò poi con il solito sguardo distaccato e sprezzante e nella sua faccia si riflesse,  come sempre, la speranza di vedere un improvviso cambiamento in me che mi avrebbe finalmente portato ad essere come le figlie delle sue amiche così educate e accorte, da far sentire a disagio persino il Galateo in persona in loro presenza.

Realizzai in pochi secondi  di essere nuovamente in ritardo e per sovvenire a questo problema decisi di optare per una colazione al sacco e un mascara portatile. Preparato un panino alla marmellata e messo in tasca del mio giubbotto di quattro taglie più grande un mascara, presi la bici ed ignorando tutti i semafori o gli stop o gli eventuali cartelli che avrebbero potuto rallentare la mia disperata corsa, mi diressi come una furia verso scuola.

La mia scuola si trovava in centro, era famosa per essere la scuola dei figli di papà e, al contrario di quello che tutti pensavano, l’avevo scelta io. Sebbene non fossi la candidata ideale, frequentavo con orgoglio e interesse il liceo classico, verso il quale mi stavo dirigendo trafelata. Ormai due anni prima avevo intrapreso quel percorso  di studi che ritenevo perfetto per dare delle riposte all’ ignoranza che avevo riguardo al mio presente e al mio futuro: speravo di svegliarmi una mattina con le idee chiare ed una via diritta da seguire, magari una di quelle via importanti come Via dei Fori Imperiali a Roma o  Corso Vittorio Emanuele a Milano, che mi conducesse un giorno ad un lavoro stabile, ben retribuito e magari anche soddisfacente e stimolante.

Alla fine avevo corso così tanto che quando giunsi alle solite scalette della solita piazzetta, i miei soliti amici mi stavano aspettando tranquillamente mentre espiravano le ultime grigie nuvole di libertà prima di tornare reclusi sui  banchi, piegati dal peso dei compiti e delle verifiche. Accesi subito la sigaretta che mi venne data, come facevano tutti, cercando in lei una qualche forma di calore più che un reale piacere. Mi ricordai della prima sigaretta fumata un anno addietro e delle innumerevoli che come lo Zeno sveviano avevo chiamato plurime “u.s.” con la speranza che un simile vizio smettesse di essere così fondamentale per i ragazzi della mia età così da smettere di compiere un’azione che non mi aveva mai attirato.  D’altra parte i primi di febbraio, mettevano a dura prova la mia indole estiva sempre orientata alla ricerca del calore e del fuoco.

In quel momento lì mi ricordai di come la prima sigaretta me l’avesse porta Veronica, una ragazza della mia età, riccia quanto me che da quella offerta era diventata la mia migliore amica. Dalla prima alla terza superiore Veronica era diventata per me una persona necessaria nella mia vita a cui con il passare dei mesi avevo rivelato parti di me che celo nel dimenticatoio pure per me stessa. Quella sigaretta era diventata un ponte tra noi due tanto che credevo si potesse cementare in un’amicizia duratura e perché no costruttiva per entrambe.    Mentre le mie mani si riscaldavano e dalla mia bocca fuoriuscivano nuvole scure e tristi che sembravano maledirmi per averle espirate in una giornata tanto fredda, venivo interrogata su alcune regole sintattiche di Greco riguardo alle quali avrei avuto versione la prima ora ed al cui solo pensiero mi si raggelava il sangue nelle vene. Allora,  presa dalla paura di un possibile votaccio, tesi il braccio denudato e riscaldato solamente dalla sigaretta fumante alla mia amica in modo che potesse scrivermi quelle che, notate bene, non sarebbero state fonte di copiatura ma unica ragione di un scampato 5 e quindi di un litigio evitato a casa. Questa magica atmosfera venne suggellata dall’arrivo di altri e dall’aumento del vociare rumoroso e vuoto che ci caratterizzava.

Feci cadere il mozzicone a terra, coprii il braccio tatuato dalla sola penna nera con le maniche e mi diressi, con i Soliti, all’entrata della scuola che si affacciava su una piazzetta vicino recitando con gli occhi socchiusi e molto trasporto l’ Ave Maria in latino, sperando nel miracolo di un dio in cui non credevo.

Entrai in classe, profumata di fumo e paura, e mi sedetti al mio posto mentre tutti i miei compagni di classe perfetti e simili a automi, ripetevano in modo sicuro e quasi meccanico quelle regole che avrei dovuto studiare anche io ma che, in seguito all’ennesima lite e fuga da casa, non avevo potuto ripetere non avendo il libro con me.

Ave Maria, gratia plena, dominus tecum, benedicta tu in mulieribus…

Sentivo il suono dei tacchetti perfidi sulle scale intonare una marcia funebre contornata dai pianti e della disperazione dei cari del defunto.

…et benedictus fructus ventris tui, Iesus…

Si aprì la porta rivelando l’esile figura della mia tanto temuta professoressa che, con il sorriso di colei che avrebbe a breve sancito con estrema cattiveria la mia media in Greco, ci fece accomodare e quasi saltellando dalla gioia per una pena inflitta ci consegnò i fogli.

…sancta Maria, mater dei, ora pronobis peccatoribus…

Poi la solita frase, posta quasi come scherno, o come ironico commento che nella sua subdola mente voleva  far intendere ed augurare il contrario: “Ragazzi è semplicissima”. Rivolsi un rapido sguardo alla verifica, speranzosa di trovare della verità nella parole della professoressa, ma no, anche questa volta rimasi tristemente delusa. Feci un bel respiro, tentai di raccogliere la foresta voluminosa e mora che ho in testa in un disordinato chignon e morsicando il tappo della penna iniziai più speranzosa che sicura.

… nunc et in hora, mortis nostrae Amen

Avevo finito presto anche grazie all’inchiostro nero ormai sbiadito sulla mia pelle color porcellana, potevo ricontrollarla per l’ennesima volta, eliminare ogni errore o imperfezione e renderla semplicemente perfetta, ma non ne avevo voglia o  non ne sentivo la necessità, non volevo rovinare quella versione portatrice di una storia imperfetta come la mia. Raccontava del viaggio di un pover’ uomo, infelice della sua condizione, che decide di cercare fortuna e felicità altrove, purtroppo non so come finisse perché era adattata ed alcune parti erano tagliate, ma anche se incompleta riuscì a mettere subbuglio dentro di me. Mi trovai a sognare paesi stranieri dove poter ricominciare, luoghi utopici dove poter scappare dalla tristezza e dalla incomprensione, due costanti di casa e dalla continua paura di non essere abbastanza,  costante della mia vita intera. Persa nei  miei sogni di libertà o fuga o come la volete chiamare, non notai le lancette dell’orologio girare velocemente e in men che non si dica mi vidi tirar via dal banco quella versione che, come avrei scoperto  di lì a poco, mi avrebbe cambiato non solo la giornata.

Il mio  banco era tutto sulla sinistra e si affacciava, attraverso due grandi finestre luminose, sul chiostro centrale della scuola che, forse per la stagione forse per il mio umore ingabbiato e incompreso, mi sembrava essere particolarmente triste e vuoto.

C’era solo  un’auto, sarà stata del supplente di turno che, magari nuovo in quell’istituto, non era a conoscenza del divieto  categorico di parcheggio in quell’area, per un attimo mi immedesimai in quell’auto, così sola e abbandonata al centro di alberi spogli e tristi mentre sullo sfondo di quell’allegro quadro i fumi dei riscaldamenti delle case di levavano in cielo malinconici, speranzosi, come me, di evadere da quelle case e da quelle vite.

Passai un giornata scolastica intera alla finestra, sognando oltre quei vetri e appannandoli con i miei respiri e desideri, ignorai come avevo sempre fatto i miei  compagni di classe, tutti  giovani rampolli della società, dotati di un conto in banca da capogiro, vestiti firmati e puzza sotto il naso ereditata dai loro  genitori  avvocati o imprenditori,  preferendo immaginare  luoghi bellissimi in cui  avrei potuto respirare finalmente la profumata, frizzante ed inebriante aria della libertà.

La campanella mi riportò alla dura e ormai inaccettabile realtà che mi appariva in bianco e nero in confronto alla mia colorata fantasia, mi dileguai velocemente cercando di evitare sia quei  futuri  raccomandati  sia i Soliti e cercai rifugio nella velocità. Mentre sfrecciavo sulla mia fida Graziella, che ho sempre chiamato Grazia, tra le vie della mia piccola città, contornata da alti edifici e trafficate strade, non riuscivo a respirare e provai più volte a ricordare se avessi qualche impegno per posticipare il mio  arrivo a casa che mi appariva come il patibolo per un condannato a morte. Poi qualcosa, non chiedetemi cosa, si ruppe.

Giuro di non sapere cosa mi  prese, nemmeno adesso saprei darle un nome, la vista iniziò ad offuscarsi, le mani formicolavano, la mente era totalmente vuota, bianca come una tela prima che il pittore la renda un capolavoro, mentre nelle orecchie sentivo le parole di quella storia imperfetta che avevo appena tradotto, in una frazione di secondo la strada davanti a me sembrò illuminarsi e la mie gambe, come mosse da una forza a me sconosciuta, iniziarono a pedalare sempre più veloce, sempre più libere. Pedalavo così velocemente da non riuscire nemmeno più a distinguere le strade che percorrevo, i colori diventavano più sbiaditi ad ogni pedalata ed i tombini risultavano ostacoli da evitare per non sperimentare una dolorosa caduta. Ad ogni metro sentivo più aria entrare nei polmoni, mentre le parole della versione ricomparivano anche  nella mia mente.

Percorsi solo 10 metri dimenticai tutti i divieti e le regole, dimenticai le ferite che avevo nel cuore a causa del malsano clima che vigeva a casa mia, dimenticai l’incomprensione che sempre mi aveva afflitta in quella classe di futuri raccomandati, dimenticai i pianti, le urla, i litigi e tornai a galla, piena di libertà e gioia. Presa da quella folle ricerca di aria cercai di tornare per pochi attimi con i piedi per terra, feci mente locale riguardo ciò che avevo con me nella mia cartella rosa che conservavo da quando avevo 8 anni e che avrei conservato, nonostante fosse sbiadita e macchiata dall’Uniposca o dal cancellino di turno che scordavo aperto, non solo per affetto quanto per scaramanzia. Poi una domanda sorse come obbligata nella mia mente: se stavo pensando a cosa avevo per fuggire, voleva dire che stavo fuggendo?

Proprio lì, proprio in quel momento mi fermai, facendo sgommare i copertoni sul cemento freddo e guadagnandomi numerose suonate del clacson da parte degli automobilisti furiosi che, come al solito, erano  numerosi nella strada davanti alla stazione. La vista diventava più nitida a ogni battito rallentato del cuore, le mani presero di nuovo ordini della mia testa come anche le gambe, lentamente destai il capo affaticato della corsa e guardando davanti a me vidi ancora la strada illuminata che portava all’arrivo inaspettato di quella corsa. Come presa nuovamente da quel raptus di pazzia, ripresi la strada, questa volta con più calma, verso quella luminosa meta il cui profumo di libertà era già giunto alle mie narici.

La stazione era conosciuta come uno degli edifici più antichi e rinominati della mia città, vista la fama della mia regione per la costruzione di carrozze. Abbandonai davanti all’entrata della stazione Grazia. Il portone d’ingresso era alto minimo cinque volte Eva, e splendeva alla luce del sole per il suo biancore così pulito e tenuto con ogni riguardo. Due guardie all’entrata mi salutarono con un cenno, ma io, troppo infervorata dalla mia fuga imprevista e inebriata da quella ritrovata felicità, mi diressi senza ricambiare ad osservare il quadro delle partenze che brillava di lettere color oro scritte in maiuscolo. Padova, Napoli, Verona, Mestre, Venezia, Milano, Bologna lampeggiavano a tempo sulla mia testa e sebbene fosse spuntato il sole in quel momento ai miei occhi l’unica reale fonte di luce era quella che le scritte dorate emanavano.

“Hai bisogno di un mano?”

Mi girai, quasi arrabbiata che qualcuno avesse potuto rovinare quel mio momento di calma, e vidi una bigliettaia sulla sessantina, con dei capelli manifestamente tinti  di biondo che però lasciavano trasparire la ricrescita grigia come le nuvole di quella mattina, aveva una fisico grassoccio e la pelle rovinata del sole e dell’età, sembrava dolce come il miele, come la nonna che mi aveva cresciuta, come i primi raggi del sole la mattina, mentre la squadravo notai la fede un po’ ossidata, simbolo di un amore duraturo, indossata con orgoglio sull’anulare sinistro e, nella mia mente, così paurosa delle parole “per sempre”, apparve come un atto di coraggio, che io fin da piccola avevo temuto, in tutte le cose. Mi guardava come una nonna guarda la nipote, con quello sguardo intriso di amore misto a preoccupazione, poi ripeté la domanda e questa volta mi avvicinai. Giunta davanti al foglio di vetro che fungeva da separatore tra di noi, la salutai con un sorriso e tentai di mettere ordine nella mia testa cercando di pensare ad una meta, ma le uniche parole che uscirono dalle mie labbra furono:

“Mi dia un biglietto per la città più lontana, non mi dica neanche quale  non mi interessa basta che sia lontana – poi, data una rapida occhiata alle mie possibilità economiche contenute nel portafoglio rosa cipria, aggiunsi- che non superi la soglia massima di 20 euro”, mi sorrise, forse deridendomi per le mie scarse ricchezze o forse solo impietosita per la mia ostinazione. Accennò poi un movimento delle labbra come se mi volesse dire dove portava quel treno che a breve avrei preso ma si fermò appena in tempo. Presi il biglietto e lo misi in tasca senza degnarlo di uno sguardo, poi con finto distacco le chiesi il binario e l’orario.

“Binario 5, 14.35” rispose con quel sorriso segnato dall’età e illuminato dalla luce proveniente dalle ampie finestre. Le risposi con un secco “grazie” poi, accortami della mia maleducazione, cercai di rimediare augurandole una buona giornata e ricambiando quel dolce sorriso. Mentre percorrevo il corridoio che portava ai binari, ragionai su come prolungare al massimo quella fuga, subito ricordai che Eva Braun sarebbe stata al lavoro fino alle 7, minuto in più, minuto in meno, sarebbe quindi bastato un messaggio in cui le dicessi come stavo e che materie stessi studiando per tenerla all’oscuro di tutto fino al suo ritorno a casa, per il suo fidato tirapiedi con il quale condivideva il letto invece non serviva neanche un messaggio, fedele come era alla sua padroncina, se quella non avesse avuto dubbi non c’era sicuramente da preoccuparsi di lui. Accesi allora il cellulare, 14.25, dieci minuti, entrai nella chat con Mrs. Braun e stavo per scriverle quando inciampai.

Inizialmente non capii in cosa, il bomber troppo grande, i capelli arruffati e i raggi intensi del sole, fecero in modo che per un attimo mi trovassi estranea a quel posto e solo mentre cadevo, come quando nei film alcune scene vengono rallentate, capii (o pensai di capire) di essere inciampata su una sciarpa. Rovinai a terra con la mia solita grazia mancata e dolorante stavo per alzarmi quando un mano mi si materializzò davanti al volto, in controluce una massa indefinita di vestiti sotto la quale compariva lieve la figura di un uomo, prese a chiedermi scusa in modo disperato e ripetitivo. Mi alzai, pulendomi le mani sui jeans e cercando di levare il più possibile la sporcizia dei vestiti. Alzai poi il capo ed un volto iniziò a prendere forma. Un uomo anziano, sui settanta circa, con una lunga barba e la pelle segnata, gesticolando freneticamente si disperava. Mi prese la testa fra le mani, poi le spalle come se si volesse assicurare che non mi fossi fatta male, mi rivolse poi uno sguardo impaurito e dispiaciuto che subito tentò di distogliere dai miei grandi occhi nocciola e non riuscendo a guardare si spostò di lato. Da questa angolazione notai i suoi vestiti, più simili a luridi stracci e dietro di essi, intravidi un materasso improvvisato con cuscini che una volta avrebbero dovuto essere bianchi e una coperta calda quanto un ghiacciolo. Tentai di rassicurarlo e gli porsi le monetine che avevo ricevuto come resto poco prima, lui allora sembrò calmarsi e, prese le monetine non sufficienti nemmeno per comprare due litri di latte, mi invitò con un cenno a sedermi sulla panchina vicino al suo giaciglio che si affacciava proprio sul binario 5. Calò poi un silenzio, molti lo avrebbero definito imbarazzante, molti strano, molti non lo avrebbero sperimentato perché visto l’elemento cui ero seduta vicina non si sarebbero nemmeno seduti. Poi “l’abitante della stazione”, con lo sguardo perso tra i binari pochi metri sotto di noi, prese coraggio e parlò:

“Benvenuta nel posto dove la gente va e viene, nel quale però qualcuno ha scelto di rimanere, Le chiedo scusa, spero non si sia fatta del male, ma è inciampata su qualcuno appartenente al secondo gruppo, mi chiamo Antonio, non volevo assolutamente farle del male, le chiedo ancora scusa signorina …?”

Alla sorpresa iniziale per il linguaggio colto del senzatetto si sostituì la soddisfazione per i riguardi che mi aveva rivolto: mai nessuno mi aveva dato del lei, mai nessuno aveva messo così in rilievo la mia persona. Con una punta di  orgoglio e riempiendo i polmoni per pronunciare meglio la risposta,

risposi :

“Benedetta”, timida e introversa come sono, anche solo la riposta era per me un grande atto di coraggio che fu premiato da un sorriso malinconico del senzatetto e da un storia.

“Benedetta, che porta bene - sapeva l’etimologia latina del mio nome, rimasi sorpresa - il tuo nome sarà sempre scolpito nella mia mente. Una volta Benedetta ero sposato - iniziò a raccontare torcendosi le mani e giocando con una fede immaginaria a cui sembrava particolarmente affezionato - sì, sposato con una donna bellissima che portava il tuo stesso nome, occhi marroni grandi e profondi, capelli biondi lucenti come l’oro, io ero felice sai, così dannatamente felice che ovunque andassi ero rallegrato dalla sua presenza, poi un giorno scoprii che non ero l’unico a beneficiare della sua bellezza, ma anzi ero solo uno dei tanti.” Uno dei tanti, come faceva quell’uomo a parlare in modo così nauseato dell’essere uno dei tanti, a me? A me che agli occhi dei miei compagni di classe non avevo nome, non avevo anima, non avevo pensieri, a me che non ero mai presa in considerazione dai miei genitori benché fossi figlia unica: ogni giorno della mia vita io cercavo dannatamente di essere una dei tanti ma non ci riuscivo, forse perché i tanti erano in troppi per accogliermi nella loro cerchia o semplicemente non mi volevano. Incontrai i suoi occhi onesti e sinceri come i miei, entrambi allagati dalle troppe lacrime che avevamo soffocato, in situazioni diverse, per motivi opposti. Fece un bel respiro, spostando lo sguardo verso gli sfacciati raggi del sole forse per guardare quel falco che volava sopra di noi oltre la tettoia, e proseguì:

“Sì, uno dei tanti, tentai di parlarle, di starle vicino nonostante tutto, ma ben presto scoprii un suo  lato che non conoscevo, mi fece colare a picco e quando mi lasciò, per l’amante del momento, caddi in un baratro di depressione. - fece una smorfia, come quella che fanno i bambini quando gli si disinfetta il ginocchio sbucciato con l’ acqua ossigenata -  In quel luogo buio che è la solitudine, cercai compagnia nelle bottiglie e nelle nuvole di fumo, mi ritirai da lavoro, credendo che non mi permettesse di guarire il mio cuore malato, piansi tanto, piansi forte, ma sbagliai, non mi rialzai mai, persi la casa, gli amici, la famiglia mi rinnegò e io rinnegai me stesso.”

In quei dieci minuti di passato, Antonio pianse dopo ben trentacinque anni di silenzio, di elemosina, di rabbia e amore repressi, pianse in presenza di una ragazza che non conosceva in una stazione vuota  che ormai era la sua casa, forse sperava in un abbraccio che non gli diedi o nella storia della mia vita che non gli raccontai. Lui, disperato, sul lato destro della panchina, io, con la gambe incrociate e lo sguardo perso, su quello sinistro. Non sapevo come cercare di alleviare il  dolore di quell’uomo che mi apparve subito grande e radicato tanto quanto o forse più del mio. Il mio sguardo continuava a muoversi come una pallina da flipper per quei muri spogli e quel pavimento sporco in cerca di un’idea poi la macchia di rosa che era il mio zaino mi illuminò. Infilai la mano nella tasca davanti e vi estrassi l’unico vero amico che avevo avuto in quel periodo: Il primo quarto di luna di un autore che non ricordo e di cui non mi interessa il nome. In quei bui giorni invernali era stato l’unico a tenermi compagnia ad alleviare la solitudine che mi perseguitava, glielo diedi velocemente quasi lanciandogli il libro addosso, come per non soffrire troppo la separazione. Antonio si asciugò le lacrime con le maniche di quel cappotto improvvisato ed era in procinto di chiedermi spiegazioni, ma, forse per evitare anche il minimo momento di tenerezza, presi immediatamente il treno che era appena arrivato e del quale, a causa del mio rumoroso cuore che sembrava pulsare nelle orecchie invece che nella cassa toracica, non sentii la destinazione.  Poggiai il primo piede sul treno e subito un brivido mi corse lungo la schiena, chiusi gli occhi in una frazione di secondo che sembrò infinita e in quel momento, per la seconda volta nella giornata, mi sentii come trasportata sulle ali della libertà spinta da un vento di calore che non mi avrebbe mai più fatta sentire sola in quel freddo inverno. Poi una voce interruppe quella sensazione paradisiaca:

“Torna a casa Benedetta, non fuggire come ho fatto io, rimani e resisti.”

Ma le porte si chiusero, prima che potessi anche solo prendere in considerazione le parole di  Antonio.

“Rimani e resisti”, facile a dirsi da un senzatetto senza famiglia né doveri, facile a dirsi da una persona che non aveva mai vissuto con lo sguardo tagliente e pericoloso di Eva, suggellato dal silenzio del suo fedele consorte e della società perbenista e snob che ero costretta a frequentare.

Lì, in quel momento, in piedi mentre le persone intorno a me tentavano di superarmi a fatica nonostante la mia esile figura, mi sentii nel posto giusto e, dopo molto tempo, ritornai a sorridere con facilità come se la mia bocca avesse tra i propri “suggeriti” quella smorfia buffa che era il mio sorriso. Ragionai sul da farsi mentre le persone dietro di me, che ormai avevano formato una fila, si lamentavano della mia maleducazione e mi lanciavano sguardi furiosi o parole cordiali dette con un tono acido e seccato che io ignorai con la mia solita maestria. Guardai il corridoio davanti a me, lungo e blu, vuoto o quasi, desideravo sedere da sola ma nel caso contrario cosa avrei detto, come mi sarei presentata ad un ipotetico interlocutore?

“Piacere Benedetta, sono fuggita dalla mia vita, sì, il posto accanto a me è libero.” No, sicuramente no. Cercai nella mia mente una qualsiasi banale bugia che potesse essere credibile ma, forse per la mia incapacità a elaborare bugie forse per la mia spietata onestà, preferii optare per la cosa che mi veniva meglio, non dire le cose. Fin da piccola ero stata accusata di non essere onesta, non perché dicessi bugie, ma perché non dicevo, preferivo chiudere la bocca e buttare via la chiave tenendomi tutto dentro al posto che cercare di creare un dialogo, un ponte con qualcuno che mi potesse aiutare e sostenere. Avrei semplicemente dovuto “non-chiamare” ciò che stavo facendo.

Mi sedetti sospirando nel posto libero più vicino a me e mi affacciai alla finestra, a osservare il mio amato e infinito cielo. Quel falco volava ancora sopra la stazione, che fosse il mio angelo custode? Risi per questo pensiero così infantile: solo i bambini pensano che ci sia sempre qualcuno pronto a proteggerli, a custodirli, ma io ho solo quindici anni: sono già una donna o forse ancora una bambina?

Iniziai a cantare nella mia testa “Wind of change” degli immortali Scorpions che era trasmessa attraverso i piccoli altoparlanti del treno, tenendo il ritmo con il tamburellare delle mie dita sul freddo vetro e perdendomi a guardare il blu infinito di quel cielo che si era rasserenato come se volesse darmi il suo benestare donandomi i caldi raggi del sole.

Così offuscata dai troppi pensieri, senza accorgermene, inciampai in un sonno profondo, che invece di portare consiglio, mi lasciò cadere nell’oblio dei ricordi.

 

Dopo ore di totale quiete e solitudine, il mio stato di pace interiore venne disturbato per la seconda volta della giornata.

Un pancione paragonabile ad un enorme mongolfiera mi si materializzò davanti, mentre una donna incinta mi chiedeva se il posto accanto a me fosse libero, a malincuore le feci un cenno di assenso con la testa e subito la futura madre  con il fiatone si sedette affaticata.

Tra me e me compiangevo quel piccolo che non era ancora nato per il senso di smarrimento che sicuramente avrebbe un giorno provato e cercai negli occhi della madre lo sguardo docile e amorevole che non avevo mai visto in quelli di Eva. Le trafissi gli occhi azzurro oceano con una luce indagatrice alla ricerca di risposte o semplicemente del caldo abbraccio materno che mi era sempre mancato. Lei mi sorrise e porgendomi la mano si presentò:

“Piacere, Elisabetta – e accarezzando l’enorme pancione che sembrava pronto ad esplodere disse - e lui è Giulio”, osservai la mano poi lei, sentii il calore di quella donna abbracciarmi e scaldarmi in quella fredda giornata, cercai di ricambiare il sorriso al mio meglio e con un filo di voce, quasi intimorita, le dissi soltanto il mio nome. Da qui partirono una serie di interminabili domande di Elisabetta riguardo le più svariate parti della mia vita a cui ovviamente io non risposi. Lei allora con un sguardo dolce  e comprensivo, “Era forse quello lo sguardo di una madre?” mi chiesi, si arrese al mio  mutismo per ben cinque minuti e poi cambiò strategia.

“Proprio non riesco a stare zitta, che ne dici se ti parlo io?- ennesima domanda a cui  non risposi - perfetto, sto andando a Firenze, - finalmente conobbi la destinazione del treno, ma sorprendentemente non mi interessò, volevo che lei mi parlasse semplicemente di se, di suo figlio, del bene che gli voleva, magari mi sarebbe bastato sapere in buone mani quella creatura ancora in pancia per scaldarmi il cuore ormai congelato da anni di mancato affetto - dove vive il mio compagno e padre del piccolo Giulio che spero nasca presto – si rivolse poi al pancione accarezzandolo dolcemente- speriamo non abbia le orecchie a sventola della nonna paterna e gli occhi marroncini della madre, speriamo sia bravo in matematica come ero io, d’altra parte di questi tempi non si può vivere facendo i filosofi, speriamo sia forte, resistente, non so se sia l’aggettivo giusto ma rende l’idea, speriamo abbia tutte le possibilità dei normali bambini, ma queste cose non si possono mai sapere – le si incrinò la voce e vidi i suoi occhi brillare come diamanti, tentò di continuare - speriamo non … speriamo … ma cosa sto dicendo? Sarà sicuramente bellissimo, e sano, sì, mio figlio sarà sano, sano e bello, farà tutto ciò che vorrà perché gli fornirò tutto il necessario per farlo, mi colpisse un fulmine se non gli darò tutto ciò di cui avrà bisogno, farà tutto ciò che vuole, sì, perché ne avrà la possibilità … ne sarà capace …”

Parlava usando frasi sconclusionate e stringendo forte il pancione come un bambino stringe forte il suo peluche preferito. Mentre guardava fuori dal finestrino, preoccupata che il bambino potesse avere una qualsiasi forma di problema, gli occhi velocemente le si riempirono di lacrime.

Per la seconda volta nell’arco di poche ore assistetti a un pianto disperato e liberatorio e per la seconda volta rimasi a guardare non sapendo cosa fare o cosa dire.

Poi Elisabetta alzò il volto rigato da quella paura, con cui ogni madre convive giornalmente, sotto forma di lacrime miste mascara, piantò il suo sguardo tagliente e delicato nei miei occhi e con la voce ancora tremolante mi supplicò di parlarle di mia madre. Un brivido che partiva dalle scapole mi attraversò la schiena, mentre la pelle d’oca ed un inspiegabile senso di vertigini mi pervase.

Mia madre, avrei voluto dirle il suo nome, ma lì per lì realizzai di non averla mai chiamata con il suo nome di battesimo da che ne avevo ricordo, già a otto anni per me lei era “Eva Braun” e gradualmente, con l’aiuto di numerose litigate, grandi incomprensioni e quel dannato silenzio che era sempre risuonato in casa mia, era mutato nel suo vero nome: Eva Braun,  consorte di Adolf Hitler,  conosciuta per l’antisemitismo e il regime dittatoriale. Durante gli anni della mia breve vita fino ad allora vissuta avevo sempre incarnato nella figura esile e bionda di mia madre ogni male che conoscevo, tanto da arrivare a incolparla addirittura dei brutti voti come avevo fatto quella stessa mattina. Cercai di dire qualcosa ma le parole mi morirono in gola, allora provai a ordinare la mia mente cercando argomentazioni valide per spiegare il pessimo rapporto che avevo con Eva ma capii in quel preciso momento, o iniziai a capire, la totale mancanza di fondamenta su cui poggiava quell’odio (sì, era proprio odio) verso la donna che mi aveva generato, che mi aveva cresciuto, che mi aveva dato tutto il necessario per riuscire in ogni parte della mia vita, tranne qualche abbraccio. Avevo sempre pensato che il mio più grande ostacolo della mia vita fosse mia madre: e se invece fosse stato l’odio immotivato che avevo nei suoi confronti? Nella mia mente presa dal panico  riprovai a trovare vere argomentazioni per giustificarmi ma  realizzai con stupore che non ve ne erano. I miei occhi uscirono dalle orbite, le mani tremavano della paura di quello che stavo per dire, sentii i  piedi formicolare, deglutii una o due volte forse tre alla ricerca di un coraggio che mi mancava. Dopo alcuni interminabili minuti seppi cosa avrei dovuto dire e, con una faccia che aveva del sorpreso e come mio solito una punta di malinconia, sussurrai:

“Le voglio bene.”, non credevo a ciò che la mia bocca aveva appena pronunciato: io, che dopo anni di litigate, urla, fughe, pianti, odio parlavo di mia madre (per la prima volta dopo troppo tempo) come di una persona a cui volevo bene, perché sì le volevo bene. Il mio cuore si tuffò nel mare del rimorso mentre la mia mente vagava ancora per quel limbo che era la fuga, la mia fuga, la mia fuga da casa, la mia fuga da colei che mi  aveva dato tutto il necessario per riuscire in ogni  sfida la vita mi avrebbe posto davanti, la mia fuga da un madre che non avevo mai apprezzato.

Elisabetta, forse rincuorata forse ancora più spaventata per il mio pallore e la mia faccia sorpresa dalle mie stesse parole, continuò a parlare ma io non l’ascoltai, avevo appena sfatato una delle certezze più grandi della mia esistenza e la sicurezza di trovarmi nel posto giusto scomparve lasciandomi sola in preda ai dubbi. Strinsi le mani e sentii il cellulare, la mia mente andò al messaggio appena mandato, alle bugie dette e lì in quel preciso istante, sentii oltre il vetro del treno l’urlo del falco che, prima di tuffarsi  a prendere la tanto ricercata preda, si volse verso di me forse fiero della mia scoperta.

Iniziai a ragionare sul da farsi, prima di tutto dovevo tranquillizzare Elisabetta, ma come? Misi le mani nelle tasche del mio caldo giubbotto ma trovai solo le chiavi di casa e il burro cacao al miele, pensai a cosa potesse tranquillizzarla e alleviarne, almeno temporaneamente la paura, poi come un fulmine a ciel sereno la risposta comparve nella mia testa. Nel mio libro di poetica, a pagina 379 vi era una poesia di Pier Paolo Pasolini, “Supplica a mia madre”, riguardante l’amore che legava il poeta alla madre, l’avevo letta milioni di volte annoiata dalle lezioni che non mi interessavano. Leggendola invidiavo Pasolini ed il profondo legame tra lui e la donna che l’aveva partorito e amato e chiudendo gli a occhi, come a esprimere un desiderio, speravo di trovarmi tra l’affetto e gli abbracci materni. Feci scorrere la zip della cartella e, aprendo il libro di poetica a pagina 379, strappai la poesia e la porsi alla quella donna ancora rannuvolata e lacrimante.

Lei mi rivolse i suoi occhi blu oceano, grandi, profondi e tanto simili a quelli di Eva da farmi ricordare, in quella irrazionale fuga, di essere una figlia e di avere quindi una madre. Mi chiese con quello sguardo sorpreso cosa fosse quel foglio strappato e ricoperto di esercizi sull’analisi del testo, con un cenno privo di ogni sentimento e pure un filo rude, le feci girare il foglio rivelandole la poesia e il suo  testo  toccante. Lei si perse tra quelle lunghe file di parole, rileggendola più e più volte, e finalmente smise di piangere, le comparve anche un sorriso, poi il paesaggio fuori dal finestrino smise di scorrere velocemente fermandosi in una grigia e moderna stazione ferroviaria mentre gli altoparlanti ci comunicavano con una voce più meccanica che umana l’arrivo a Firenze.

 Scesi dal treno insieme a un turbinio di persone rumorose e di fretta che parlavano in modo meccanico e freddo al cellulare, guardai in alto socchiudendo gli occhi per la luce che mi accecava. Dove mi trovavo di preciso? A chi potevo chiedere aiuto? Dove sarei andata? Cosa avrei fatto? Come avrei fatto? La vista iniziò ad offuscarsi e le lacrime che erano comparse nei miei occhi non fecero in tempo a rigarmi il volto, che caddi per terra schiacciata dai rimorsi e dalla domande.

Rinvenni mezz’ora dopo rispetto all’orario d’arrivo che ignoravo, con la testa appoggiata sul mio zaino rosa e le gambe tenute in alto da un distinto signore in cappotto e bombetta. Aprii gli occhi spaventata alla sola ricerca della mamma, della mia mamma, non Eva ma la donna che mi aveva creato, iniziai a urlare il suo nome, il suo vero nome che mi apparve melodico e dolce, alzandomi in piedi e correndo lungo i binari di quella stazione che mi era totalmente sconosciuta, mi resi conto di non poterla avere e, come fanno i bambini, mi piegai sulle ginocchia e poi mi accasciai piangendo tutte le lacrime fino ad allora soffocate. Mentre cadevo disperata a terra alla ricerca di un caldo abbraccio che non potevo avere, vidi il nome della stazione stampato su un cartello giallo che si scagliava verso il cielo azzurro e l’urlo del mio falco custode tagliare l’aria, poi solo colori sbiaditi e tante lacrime.

Avevo ufficialmente toccato il fondo e, come mi aveva detto Antonio, quel luogo era buio e pieno di solitudine mista sconforto.

Per la terza volta in quella giornata qualcuno si era abbandonato ad un pianto tanto liberatorio quanto disperato, temetti che, come avevo fatto io, nessuno mi venisse ad abbracciare e ancora più sconfortata chiusi gli occhi sperando di volare via come quel falco il cui volo mi aveva fino ad allora accompagnato. Poi come la musica che nei film fa intendere l’arrivo degli eroi pronti a sconfiggere una volta per tutti l’antagonista, soggiunse il passo affaticato e il  solito fiatone  di Elisabetta, lei si stese accanto a me abbracciandomi e accarezzandomi i capelli con le sue mani lunghe e delicate, mentre intonava una ninna nanna bambinesca ma allo stesso tempo necessaria. E proprio lì, proprio in quel momento, distesa sul pavimento freddo, in una stazione di un’altra città, abbracciata a una donna che non conoscevo e desiderosa di quella mamma che non avevo mai voluto, mi sentii persa divisa tra il persistere nel mio insensato odio verso la mia realtà e quelle ritrovata fiducia nel mondo che mi circondava giornalmente.

“Resisti” aveva detto Antonio.

Rimasi per qualche minuto abbracciata ad Elisabetta, cullata dalla canzoncina e rilassata dal suo tocco materno, cercai di ricevere più calore possibile poi, almeno in parte ripresa, mi misi a sedere, feci scivolare la mano destra nella tasca dal bomber di quattro taglie più grandi, appoggiai il cellulare all’orecchio mentre il bippare della chiamata scandiva i battiti del mio cuore, la mamma alzò la cornetta e con un filo di voce dissi:

“Mamma vienimi a prendere.”

(racconto semifinalista al Premio Campiello Giovani 2020)

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